Il campetto da basket.

“E prendi quella palla, Tommy!”, imbranato di un fratello. Siamo al campetto, davanti allo studio medico dove lavora la mamma. Papà ha finito il turno presto e ci ha portati qui, perché gli piace vederci giocare a basket. Io adoro questa palla grossa, arancione e rugosa come un paguro birichino. Me l’ha presa lui, nel negozio in centro, quello pieno di articoli sportivi, bellissimi e costosi. Io sono alto, come mio padre.

Quando giochiamo a basket mi sento invincibile, com’era lui nelle fotografie.

Giochiamo anche in casa, qualche volta, con il cestino della spazzatura a fare da canestro. E mamma che mi insegue lanciandomi addosso lo strofinaccio della cucina, perché nella nostra casa a palla si gioca solo sul balcone. All’interno ci sono i ricordi della nonna, quelle ceramiche arcigne e grossolane che di notte scendono dai mobili e vanno in giro ad ammazzare. Pensavo questo da bambino. Anche adesso, che sono un ragazzino (in seconda media non si è più bambini, vero? Forse neanche in prima), se di notte mi sveglio all’improvviso, me li vedo tutti in fila, quei mostri bianco latte: un esercito di spiriti malvagi che mi tengono sveglio fino al mattino.

Mio fratello Tommaso non si sveglia mai.

Dorme un sonno lungo e tirato dalle nove di sera alle sette di mattina. Mio fratello Tommaso se ne frega, se i mostri gli divorano il letto, le guance, il cervello. La vita. Mio fratello Tommaso è quello bravo a fare tutto. Io sono bravo solo a giocare a basket.

Per questo credo di odiarlo, mio fratello. E non gli passo mai la palla.

Adesso mamma se ne accorge. Sempre lei se ne accorge, quando esce stanca e zoppicante dallo studio del Dott. Consonni. “Mirko, passa quella palla a tuo fratello!” E grida. Grida sempre, come se il mondo intorno avesse sempre i tappi nelle orecchie. Mio padre rimane in silenzio. Sa che è meglio non parlare, se alla mamma gli occhi diventano rossi e liquorosi. Tommaso mi guarda torvo. Poi osserva la mamma e fa un cenno di espressione triste, a cercare consenso. A elemosinare protezione.

Io devo farlo giocare. Io devo portarlo a lavare le mani. Io devo fargli vedere come si fa a frenare in bicicletta. Perché lui è piccolo. Perché lui ha quella cosa che un mattino forse si sveglia e non gli funzionano le gambe. Un problema degenerativo, dicono. I segnali ci sono già tutti.

E un giorno succederà che saremo tutti schiavi di un sovrano in carrozzina.

Anche io cerco di dare dei segnali, come quelli degli indiani, nel cielo, a forma di nuvolette di fumo: però non devo essere molto bravo, perché la mamma non mi vede se inciampo nel pallone, se mi taglio con la carta, se in macchina mi viene la nausea quando il papà fa le curve un po’ veloce.

La mamma vede Tommaso.

Papà non si arrabbia mai, la capisce e, con il tempo, credo che la capirò anche io: lei adesso vede solo Tommaso, perché magari un giorno non lontano, lei Tommaso non lo vedrà più.