La maschera.

Occhi, naso, guance. Mento. Orecchie. Denti.

Voglio imparare a metterla anch’io, una bella maschera. E camminare nel mondo senza timore.

Una faccia bianca e sorridente, un ghigno finto che è capace di rassicurare. La mia non sarebbe una maschera e basta: sarebbe una corazza.

Ho deciso: sarò un insetto di quelli piccini e letali, che è meglio lasciar stare; sarò nero, con due occhi grandi e densi come il petrolio e le antenne affilate come spade.

Non oserai avvicinarti; la mia maschera farà paura, saprà immobilizzare.

Un corpo finto, un’ombra spessa, che sarà il mio attacco e la mia difesa: dentro lascerò le parti molli, tutto me stesso, in verità, perché io sono molle da sempre.

Non sono mai riuscito a essere duro, non mi viene: devo pensare bene di tutti, delle cose e delle persone. Il tempo, però, mi ha portato le parole della gente, le percosse cattive, i tagli profondi.

Hanno fatto infezione, anche.

Perché ho cercato di ignorarli, convinto che se fingo di non vedere una ferita, la ferita si rimargina, va a posto da sola. E tutto torna come prima.

Invece non funziona così: quando gli altri ti colpiscono, cominci a perdere pezzi di te. Le parti molli, appunto.

Per mantenerti in vita e intero devi generare una pelle coriacea, che è una maschera e al contempo un esoscheletro durissimo.

Da lì riparti per lasciare tutto fuori.

I giorni in cui togli questa armatura sono rari, ormai. Prima lo fai quando sei solo. Poi, piano piano, non lo fai più, neanche prima di dormire, neanche davanti allo specchio.

È successo: sei diventato la tua maschera. Come stai bene, ora.