La mela di Biancaneve.

Non credevo di trovarti qui.

A Milano, davanti alla Stazione Centrale.

Sei fermo sotto la mela bianca del Pistoletto, frutto proibito che ti chiama e ti protegge. Tiro la mia valigia e ti vedo arte nell’arte. Con gli occhiali spessi e neri, i boccoli castani da angioletto un po’ cattivo. E la bocca dolce come il latte condensato degli inverni secchi e duri, dentro la dispensa di Nonna Gina.
“Ciao Bianca, Ricky si è fermato alla copisteria. Ci raggiunge. Lo aspettiamo qui, vuoi?”
Che bella domanda, Paolo. Voglio. E non dovrei. Perché più ti sto vicino, più desidero finire dentro un fosso. A soffocarmi questa voglia che mi prende nella pancia, quando ti vedo guardarmi.

Quando ti vedo e basta.

È quasi un anno che ci conosciamo: Riccardo ti ha portato nella nostra casa immacolata un pomeriggio di ottobre. Vi siete incontrati all’università, Architettura. Anime belle. Anime affini.
Lui ti ha adorato dal primo momento. Pomeriggi di studio e pasticcini alla frutta. Chili di panna spray. Le facce perse nella grafica spaziale della xbox 360, con quegli zombie repellenti, veri più del vero, che io e la zia Romina sentivamo morire fino al piano di sopra, nelle mie pause dal romanzo. E nelle sue pause dal ferro da stiro.
La prima volta che ti invitai a cena: “Che delirio, la sua caprese!” esclamasti. “Ma Paolo”, ti dissi, “non è mia. Io non cucino. Sono passata prima dalla gastronomia di Via Modugno”. E la mozzarella era ancora gelida di frigo. Eppure continuavi, come un critico esaltato: “Signora, davvero. La finezza di questo accostamento…il vivace mescolarsi di questi colori…”. Ridemmo come matti. Dopo lunghe settimane che non risuonavano risate tra le nostre quattro mura. Candide, incombenti.

Tra quelle foto di famiglia da sempre così serie. Così altere.

Mio marito mi aveva lasciata un mese prima. Per Laura. La solita segretaria. Così, in quei giorni, ero la moglie banale di un dirigente banale. Sulla testa avevo un paio di corna banali. E mi sorprendevo a guardarmi allo specchio più volte al giorno. Grigia. Banale. A desiderare una morte banale. Nel sonno, magari.
Poi iniziavo a sognare te. Mi prendevi. Da un precipizio. Da un fiume. La tua mano mi tirava sempre su. Il tuo bicipite, sodo, dentro la manica stretta della maglietta dei Muse.

Diamoci del tu.

Bello il video che avete girato. Dove hai imparato a saltare con lo skate? Questo spacca su YouTube.

E ancora risate, che non mi ricordavo neanche come si faceva.
Son le quattro di mattina. Dai, fermati. Puzzate di birra, ragazzi. Paolo, dormi qui.
Non ti devi giustificare, vivi da solo con il tizio siriano, mandagli un messaggio, forza. Rimani qui. La camera di Ricky è grande, sai, all’inizio si pensava a un fratellino. Ma poi Gerardo non voleva far l’amore. E io non mi toglievo più il pigiama.
Quanto avete bevuto, siete matti, ragazzi.

“Tu sei stupenda, Bianca”.

Mani sulla faccia. Io ti spingo nella stanza, docile, mentre Paolo in doccia canta non so cosa. Lo scroscio dell’acqua copre tutto. I pensieri no. Li fa vagare dolcemente, come messaggi nella bottiglia, SOS affidati al moto perpetuo del mare. “Se non fossi mia madre, ti scoperei fino a farti morire, Bianca”.
Che fitta nelle viscere. Paolo, non sono tua madre. Non so dov’è tua madre, io. Forse non ce l’hai, tu, una madre. Non me ne parli mai.
Idiota di un ragazzino. Allora provaci. Scopami, allora. Ti trafigge il ceruleo del mio sguardo.

Sei caduto sul cuscino, maschio latino. Che vergogna. Avevi la faccia di un figlio paffuto di sei anni, dopo una sera passata a giocare con i Lego. Eppure quella volta ci ho creduto. Che mi spogliassi davvero.

Che mi accarezzassi l’anima con le tue dita lunghe e buone.

Adesso siamo qui ed è passato quasi un anno. Sono andata in Toscana a trovare mia sorella, vi ho lasciati soli, ragazzi. Mi accogli con le mani, con gli occhi.

Mi saluti con la pelle.

Sei vicino, in un modo diverso. “Come è andata, a Montepulciano?”

Bene. Mi sei mancato. “Mi sei mancata, Bianca”.

Tremi? Ti avvicini. Dovrei aver paura.

Quando mi tocchi la frangia, che ti piace tanto. Il pollice e l’indice sulla mia guancia. Ma sono io che dovrei accarezzarti, figlio.

Il bacio è lungo, profondo. La piazza si volta e ci guarda. Le orecchie esplodono.

Donnaccia. Che se la fa coi ragazzini.

“Mamma!”

La separazione è brusca. Violenta. Tu mi spingi via.

Riccardo è impietrito. La smorfia di un gargoyle. Che fugge nel fermento del traffico milanese. Io sono Bianca. No. Adesso sono Biancaneve. Paolo, credevo fossi lui. Il principe giunto a salvarmi dal torpore della mia esistenza. Banale. Invece sei la strega che mi tenta, dolorosa: la tua mela è in questa piazza, mastodontica.

Più grande di noi.

Riccardo non torna a casa da giorni. Non mangio. Tu sei uscito dalla mia vita.

Una sera sto piangendo, con la gatta in grembo. Nella casa gigantesca e vuota, che rimbomba e mi lancia addosso tutto quel suo candore malato.

Il trillo del telefono mi fa trasalire.  È un messaggio: un vostra foto. Insieme. Di qualche mese fa.

“Vedi, mamma? Io l’amavo”.