Mais e stelle.

Vado via. Lo faccio ogni sera, appena prima dell’imbrunire. Cammino fino allo sterrato, con passo sempre più veloce, in fuga. Mi addentro nelle campagne generose intorno al mio paese, culla e tomba di tutto. Di tutti. Incontro i fusti alti del granturco, adesso che è caldo e folto come una foresta.

Stasera che è un agosto di aria umida e pesante.

Di zanzare indefesse in mezzo a una tempesta di gocce di sudore. Son giorni che si accorciano, con i piedi già un po’ dentro nell’autunno, sospesi nella bruma mattutina che si adagia nel sottobosco, lieve. Sono rimasto solo. L’ho voluto io. Le persone mi sfiorano, certo, ma dopo un po’ si fanno viscide, disattente. È l’abitudine, che me le fa scivolare addosso.

È che mi stanco, io, della gente.

Mi stanco anche di me, certe sere che mi guardo allo specchio e non mi trovo, nemmeno nei buchi più grossi della pelle, nemmeno nei miei occhi marroni come cumuli di terra. Mi trovo forse nel granturco, aumentando il ritmo dei miei passi: vado, vado e ancora vado. Non mi volto. Tanto lo so, lo sento: sento che il male è ancora lì. E mi segue. Certe volte mi raggiunge, mi afferra la schiena, ma io mi divincolo e con un colpo secco di reni riesco a liberarmi, a riprendere la mia corsa affannata. Altre volte ho un vantaggio notevole, quasi il male resta indietro. E allora mi sento libero, leggero. Non mi sento più io.

Questa sera è così. Sono un altro.

Uno che non ha mai conosciuto la violenza, uno che aspetta l’amore. Sono uno che ha le mani curate, pulite, fiduciose. Le mani vergini che vogliono donare, che non hanno mai lavato il sangue di nessuno. Cosa faccio, in mezzo a tutto questo mais, alle pannocchie timide con i barbigli scuri? Aspetto. Che il male mi raggiunga di nuovo, poverino: con qualcuno deve stare, il male. E mi sa che sono io, quel qualcuno.

Va bene così, in fondo. Intanto che lui mi raggiunge, io sto impalato qui, con due piedi piatti, giganti, che sembrano zampe di papera bisbetica e buona. Alzo la testa, un poco. E sopra c’è una cupola bella, grande. Una cosa che contiene almeno un milione e mezzo di altre cose. Che sta sopra a tutti i dolori, ai dolori di tutti.

Ognuno ha il suo dolore, che gli fa un po’ di compagnia.

In alto c’è una volta grande di stelle. E poco dopo è un frammento, un attimo: la scia chiara di una stella che cade. Poco distante da qui, da me. Certo. È il 10 agosto. Sarà anche un’illusione, ma quanto è dolce e buono e giusto crederci sempre. Crederci ancora.