Terra nuda.

È il peso. Questo morto pesa troppo. Ho mani e braccia stanche, già tremanti quando lo porto fuori dalla macchina. Lo appoggio a terra. Lo trascino sull’asfalto che gratta, grigio. Topo maciullato nel mezzo di una strada.

È notte come è notte nei film di paura.

Il buio è denso, una coltre spessa che protegge. Come si fa, a rimanere vivi? Si fanno gesti automatici, che garantiscono sopravvivenza. Si fanno cose che ci impediscono di ragionare. Di soffermarci a leccare le ferite. Allora i tagli si infiammano. Marciscono. E fanno ancora più male. Ma intanto noi non li curiamo. Li lasciamo purulenti e infetti a crearsi da soli una crosta coriacea, a dividere la nostra anima dal mondo.

Dopo capiamo. Che queste ferite con la crosta non sono interessate all’aria fuori, ma intaccano gli organi interni. Vanno dentro come tarli nella pasta morbida del legno di ciliegio, in taverna. E tutto si contamina, tutto diventa un’unica lebbra invadente e cattiva.

La fine, allora, è a un passo.

Ma tu guarda cosa pensa, il cervello, quando le gambe portano un cadavere massiccio. Sono passati soltanto otto mesi. E ho ricominciato. La caccia è ancora aperta: qui non c’è licenza. Via libera ai bracconieri che fucilano volatili impigliati nelle reti, voliere come sarcofagi alla mercé del vento, angeli garruli.

Non ci sono lampioni, a illuminare questa via che costeggia il campo. Sono le quattro di mattina e l’oscurità opprime, chiude gli occhi come la sabbia, quella maligna dell’omino del sonno. Fa freddo, l’umidità entra convinta nelle ossa, passa tra le cosce, fa rizzare i peli del petto. Anche se è ottobre, anche se sudo perché questo morto davvero mi sfianca. Devo gettarlo.

Grassa, questa terra marrone. Regno di vermi.

La campagna è pronta per ricominciare il suo ciclo. Prima qui c’erano fusti alti di granturco, vivaci giganti fibrosi, che pian piano si son fatti bracci secchi. Pagliacci smilzi e tristi. Da qualche giorno, dopo la raccolta delle pannocchie barbute, il campo è stato liberato. Tutto pulito, rivoltato. La terra rimescolata. Dovrebbe succedere anche a noi. Che un aratro o una zappa ci ribaltino da capo a piedi, che qualcuno raccolga e metta al sole ad asciugare i nostri frutti dell’anno. E poi ci prepari alla stagione del riposo. E poi ancora della semina. E così via, ad andare avanti luna dopo luna, aggrappati alla terra come una zucchina, un cavolfiore. Un cespo folto di insalata.

Ho poco tempo. È ora di iniziare.

Ho portato la pala, penso a mio padre. Che in giardino mi dava in mano vanga e rastrello: avevo sei anni. Giocavo al giardiniere, ma volevo farlo con gli attrezzi veri. Che mi importava di un finto trattore? Di una palettina colorata? Volevo la realtà, io. L’ho sempre voluta. Senza sconti, maschere, giri di parole. Così butto via anche questa pala che mi fa venire i calli sulle dita. E scavo con le mani nude. Con le mani nude scavo la nuda terra. Si può fare l’amore con la terra? Io lo sto facendo. Ho caldo. E sto bene. E scavo.

Poi ci sono fari che mi accecano, mi fanno morire. Una macchina. Urla.

Nessuno. Soltanto un trio di svitati che sfrecciano su una Golf grigia dalla strada dell’Hemingway, poco lontano. Una ragazza dai capelli ossigenati, seno enorme, si sporge dal finestrino. Non credo mi veda.

D’un tratto, alcuni secondi dopo, l’automobile inchioda. La frenata è assordante.

Io mi faccio terra contro terra. Appiattito come un lombrico ripugnante.

Qualcuno apre la portiera. Qualcuno verrà qui. Mi hanno scoperto.

“Muoviti!”

“Hai finito?”

“Sto male, cazzo!”

Io rimango acquattato come un ramarro nel buco di un marciapiede sudicio. Comincio a stare bene, in questa tana.

Una sagoma scura sbatte di nuovo la portiera. Si accende il motore e i fari si fanno alti, ad abbagliare tremule lepri negli sprazzi di bosco oltre i campi. La Golf parte con un impeto violento. Sterzata brusca, che incide la strada, e poi silenzio.

Nell’aria ferma che precede l’alba, mentre rugiada cristallina e bruma impalpabile ammantano le ultime spighe della stagione, si sente soltanto un lieve cinguettio: il saluto di un cardellino brioso, pronto già a lasciare il nido.

È ora che finisca il mio lavoro.

Riprendo a scavare, ma questa volta non occorre molto tempo, perché le mani e le braccia sanno bene dove andare. La buca è pronta, adesso. Un bel giaciglio soffice, come può essere soltanto la terra madida e grassa di un campo ben curato. Il cadavere che ho portato non aspetta altro. Io non aspetto altro.

E allora lo faccio, perché è il tempo giusto, quello che era scritto prima che ogni cosa succedesse. Mi porto al bordo del foro, come per un tuffo acrobatico nella piscina comunale.

Il volo nella buca, in fondo, è bello. Un abbandono di spalle, che salva.

Atterro con la schiena: fa male, in verità. Da tanti giorni credevo di essere una salma. Non sentire più nulla.

E invece. Invece devo attendere che siano gli insetti a mangiarmi. A cancellarmi dalla vita. Una mattina all’incedere del giorno nuovo, in un campo tiepido, sfiorato appena dalla carezza del sole. Sto così, quasi morto dentro la materia. Senza tomba, senza lapide. Con gli occhi nel cielo. Alto, troppo alto. Mi aiuto con le mani, mi getto il fango addosso. Sopra, in ogni dove. In bocca è amaro. Negli occhi pesa, li costringe a chiudersi, fino a sciogliersi in una pozza salmastra.

E infine lo capisco qui, mentre sono mezzo sepolto, quasi morto.

Non è il cielo, ma è la terra, che perdona.