Una birra.

Vengo apposta.

Perché in qualche maniera mi pare che mi aspetti. Che lui arrivi per me.

Non ero mai entrato in questo bar, prima. Ci sono capitato una notte che pioveva e non mi andava di tornare a casa. Gli altri li avevo lasciati al solito posto, con le solite parole.

Sono passati gli anni e ci diciamo ogni volta le battute che sappiamo.

La spia della temperatura dell’olio si era accesa ancora. Giovanni me l’aveva controllata due giorni prima. “Sistemato tutto” mi aveva detto. Per di più gratis.

“Sistemato un cazzo” ho pensato io, perché eccola lì, invece, a darmi ancora fastidio. Ho bloccato la macchina per farla raffreddare, e sono entrato nel bar a bermi una birretta, ché fuori c’era un gelo cane.

Ai tavoli non c’era nessuno. Dietro il banco una ragazza brutta, con i baffi di un uomo. Mi ha allungato, brusca, una Guinness in lattina.

“Hai poco tempo, chiudiamo”. Voce di tacchino.

Ho trovato posto in un tavolo vicino.

E l’ho visto, solo in quell’istante.

Un uomo biondo, che sorseggiava una birra bionda. Un volto che mi diceva qualcosa. Tutto.

Mi sono accorto subito che lo fissavo. E lui fissava me. La sua faccia era la somma di tante altre facce. Un insieme perfetto.

Ha sollevato lo sguardo e i suoi occhi erano quelli di Giacomo, verdi, cattivi. La bocca era di Santo, gli mancava perfino lo stesso dente.

Le orecchie, una giusta, l’altra un po’ sporgente, erano identiche a quelle di Carla, che pensava sempre di nasconderle sotto il cappello.

Tutta brava gente.

Tutta gente morta.

La faccia di quest’uomo biondo, con la birra bionda, era una passeggiata al cimitero del mio paese. Guardavo lui e vedevo i morti che avevo conosciuto.

Che aumentano di anno in anno, mentre noi giovani invecchiamo.

Mi sono alzato e sono andato via.

Non avevo paura. Anzi.

Ogni tanto torno in quel bar, non lontano da casa. L’uomo biondo c’è sempre, io lo guardo ma non mi avvicino e non chiedo agli altri chi sia, come si chiami.

Tutte le volte mi fa vedere i dettagli delle facce dei defunti che conosco. Certe volte è bellissimo, rivedo mio padre. Il naso grosso, da segugio.

Altre volte mi fa male, perché gli vengono le fossette di Martina, la prima cosa che il tumore le ha mangiato via.

Io lo so, l’ho capito, che lui è la Morte. E in qualche maniera mi chiama, mi attira.

Mi conquista così, facendomi vedere che i morti sono ancora vivi. Che mi vogliono ancora bene.

Un giorno avrò il coraggio di parlargli, di offrirgli da bere. E forse sulla sua guancia apparirà anche la mia cicatrice, quella del taglierino.

Quella che mi ha fatto l’uomo che sono, quando ero ancora bambino.