Amalia.

Il primo ricordo di te è un orso di peluche, che avrà per sempre la tua voce.

Io sono la Chicca, una bambina minuta e piena di parole, con i codini neri.

Tu stai seduta sul divano di casa nostra, una coperta leggera, stesa sulle gambe. Alla tua sinistra l’albero di Natale, quello vero. Dai suoi aghi scaturisce il profumo della mia infanzia.

Mi hanno detto che continui a esserci, nonna Amalia.

Hai solo un’altra forma: a me vengono in mente le nuvole, così evanescenti, così effimere, ma sempre presenti, anche in particelle piccolissime. È così, lo so, perché la mia vita non fa che regalarmi segni di te.

Eppure i miei occhi non sono fatti per vederti come sei adesso, perché stanno attaccati alla materia, alle cose del mondo. Non sanno andare al di là, scoprire chi è passato attraverso, si è fatto essenza ed è diventato impalpabile.

Allora provo con il cuore.

E credo di riuscirci quando ti sogno, sempre sorridente, mentre mi racconti in dialetto le tue storie di vita in cascina, mentre declami i tuoi proverbi bergamaschi ai pranzi di famiglia.

Il 10 marzo avresti compiuto 93 anni.

Sono tanti, nonna. Lo dicevi sempre. “Ho la pelle dell’asino!”, perché eri fiera, forte, resistente. La tempra di un guerriero. Per questo ti è costato fatica, morire. Stavi aggrappata al letto e alle nostre dita, ogni tanto una lacrima scendeva dalle tue palpebre schiuse. Ci guardavi, anche quando pareva che una nebbia sottile si fosse interposta tra te e l’esistenza. È stato duro accompagnarti: è sempre doloroso lasciare andare chi si ama. Ho desiderato che morissi, mentre io e la mamma eravamo al tuo capezzale, per farti sentire che non eri sola. Sei morta, invece, una sera di maggio, senza fare rumore. Te ne sei andata dopo un’agonia snervante, fatta di affanni, di crolli e risalite, di rabbia, di rassegnazione.

Mi porto dentro i tuoi insegnamenti, quelli che contano di più: quelli che mi davi con l’esempio, nel fluire banale e prezioso di ogni giorno. La polenta. Ecco. La polenta come la facevi tu, adesso non la fa più nessuno. Perché tu avevi un impeto nei polsi e nelle braccia, l’energia di un’epoca in cui si voleva sopravvivere.

E poi il risotto giallo.

Sono diventata brava, sai, in questi anni: lo giro e lo rigiro con il cucchiaio di legno, lo custodisco, lo proteggo. “È da curare, il risotto!” ripetevi. Perché è un atto e un fatto d’amore.

Serbo le tue guance piene, le lentiggini vezzose, l’espressione grata di quando venivo a trovarti: “Sei bella come un miracolo!”. E il miracolo eri tu. Erano le nostre mani l’una sull’altra. Erano i nostri caratteri forti, che il contatto rendeva più lievi.  Era il tempo speso a raccontarci, a sentirci parte di una linea sottile e salda.

Un legame che non teme la morte, un amore che ha il coraggio di andare sempre avanti.