La recita di Natale.

Lo aspetto anche quest’anno. È lo spettacolo di Natale della scuola materna: Leonardo, il mio bimbo, è un mezzano della sezione dei Gialli, salirà sul palco alle ore 11.30 e interpreterà…una zucchina!

Suona bizzarro, lo so: di certo fa sorridere.

Eppure c’è un grande significato, in questo Natale raccontato attraverso la metafora del cibo. Il programma scolastico 2016-1017 prevede una serie di laboratori, attività e iniziative che trattano il tema dell’alimentazione. E allora perché non illustrare il Natale immaginando una storia di delizie da assaggiare?

Ecco che sul palco si muovono felici le patate, i piselli, le carote, i fagioli, le zucchine, il sedano e le cipolle.

Tutti questi bimbi-verdurine, ognuno diverso eppure tutti così uguali, danzano in una minestra che i pastorelli e le pastorelle porteranno in dono al Bambino Gesù.

Ho amato questa storia e il suo senso profondo, perché è bella l’idea di un gruppo composto da tanti colori diversi (come sono diversi i compagni di Leonardo, alcuni provenienti da varie parti del mondo) e altrettanto bella è l’immagine di un regalo così semplice e così fondamentale, che serve a nutrire un neonato venuto alla luce tanti anni fa in una capanna, nella solitudine, nel freddo e nell’indigenza.

Per questo nella parte finale della recita, quando compare sul fondale il disegno del presepe e ritornano in scena tutti i piccoli attori a cantare una canzone per il Bambino, mi commuovo.

Li vedo sereni, tranquilli, soddisfatti, fieri.

Li vedo bambini felici, come dovrebbero essere tutti i bambini, che donano a noi il dono più grande: l’amore incondizionato.

E mi pungono le lacrime dietro le palpebre perché è inevitabile pensare a tutti i piccoli del mondo, a quelli che vediamo nei filmati sul web, coperti di polvere, con le manine gonfie, senza più alcuna espressione di dolore.

Piccoli affamati, questo sì: affamati di attenzione e di amore.

C’è tanta banalità in questo mio scritto, me ne rendo conto. Non dico niente di nuovo. Non risolvo nulla. Non so fare nulla. In questo momento mi sembrano inutili anche i piccoli gesti che possiamo fare per offrire un aiuto concreto, nelle piazze, via internet, con i regali solidali e tutto il resto. Tuttavia una voce dentro di me mi sussurra che anche la banalità può valere, se serve a sconfiggere il silenzio e l’indifferenza.

Mi viene da pensare che il primo gesto importante sia negli occhi aperti, nelle bocche che parlano, nelle mani che non stanno ferme.

Insegnare ai nostri figli che non è scontato vivere tranquilli. Non è scontato non avere bombe sulla testa. Non è scontato poter imparare a leggere e scrivere, mangiare, coprirsi, giocare.

Insegnare ai nostri figli, poi, che il dolore è certo in Siria, in Africa o in una Berlino colpita dall’odio, ma è anche qui, ovunque: il dolore non è solo quello scoperto, urlato, visto, comunicato.

Il dolore magari sta seduto vicino a noi e noi non lo sappiamo, ci vive accanto ogni giorno.

Eppure abbiamo un’arma contro il dolore: il nostro sguardo attento. Il nostro sorriso.

La nostra volontà. Il desiderio di credere, sempre e comunque. Non lasciarci investire dal male. Prenderne atto e agire nel piccolo o nel grande, come possiamo.

Ognuno con i propri ingredienti e le proprie capacità, come se dovessimo preparare una ricetta speciale, una vera ricetta d’amore.