Il giardino degli ulivi.

Erano stanchi, i miei piedi.

Dolenti e malridotti. Eppure li ho portati fino a qui, dove forse una speranza c’è. Avevano ancora attaccata la sabbia del deserto, la terra delle montagne. Tra le dita c’erano coralli e spugne e ricci di mare pungenti. I polpacci, poi, erano tronchi morti, duri: ricordavano ogni passo, a levarsi ancora e ancora tra le scale, le rocce, le salite e le discese, che ti sembra di cadere, ti sembra di morire. Il vento, il vento che mi sferzava la faccia, mi faceva piangere gli occhi.

Sulle spalle avevo te.

C’eri tu che battevi i denti per l’emozione, la paura, la fiducia. Stavi addosso alla mia pelle come un piccolo di tartaruga, aggrappato al carapace di una mamma ritrovata in mare.  Ti portavo. Non finivo, non potevo. Il sangue ribolliva e le parole non le avevo. Avevo solo gli occhi grandi di un pesce nella rete e l’incedere impetuoso di un cavallo che prosegue la sua corsa. A momenti era l’ultimo, sempre l’ultimo, quel mio respiro.

Ma eri tu che non dovevi morire, che dovevo salvare.

Non sarai solo contro quel male che ti vuole portare via. Lo vedi? Sono veloce, più veloce di lui. Non mi fermo mai. Siamo insieme nella corsa, nella sala d’attesa, nel letto, sul divano. Un succo all’albicocca lo vuoi? Ti riprendo, se ti va. Ti mangio adesso. Inghiotto il tuo corpo sbattuto dalle medicine. Posso? Ti rimetto nella pancia e ti faccio uscire ancora, urlante e bluastro, senza quella malattia che ti è venuta addosso, infida condanna che si è infilata nei tuoi atomi a tradimento, senza chiedermi il permesso.

Sei bianco, amore. Un lenzuolino che sorride.

Quest’estate ho camminato fino a quegli ulivi. Pregavo. Come Gesù pregava il Padre, nel Getsemani. Eppure sapeva, che era inutile tutto. Per me no, per me invece serve tutto.

Chiedo la forza di farti vivere. Io ce l’ho, questa forza.

Mi viene dalla terra. Mi viene dallo stomaco. Guardavo il cielo attraverso le foglie verdi e le olive, piccole gemme preziose: l’ho visto pesante e leggero. Il cielo è il riflesso di ognuno di noi e ci dice sempre quello che dobbiamo fare: bisogna solo chiudere gli occhi, a un certo punto. Le nuvole mi han detto di credere, allora, di camminare. Per sottrarti al male. Arriverò a un traguardo che ancora non so, di certo arriverò a un giardino grande, dove scenderai dalle mie spalle. Avrai le gambe molli e la schiena che cede. Avrai la pelle diafana e impaurita. La bocca amara.

Però farai di nuovo un passo, sarà il tuo primo vero passo, come un uomo della Luna. Intorno a te sarà un’immensa distesa di ulivi. E io. Le mie mani. Le mie spalle. La mia faccia. I miei piedi.

Io. Tutto.