La lettera di addio.

Aspettavo il treno a Bellano. Era in ritardo. Davanti alla stazione, nella piazzetta lastricata con il distributore dell’acqua, c’era lui. Seduto.

Un uomo dai capelli lunghi e arruffati, con la barba incolta e gli occhi di un azzurro incerto, sbiadito.

Lo sguardo era annacquato da lacrime indecise, incapaci di venire giù. Stava curvo su se stesso, arricciato sopra un muretto poco distante da me. In mano aveva un foglio scritto a mano, una lettera che conteneva più o meno queste parole.

“Ritorna. Non ti posso trattenere. Riprenditi i tuoi monti, nel tuo lago. Stai lì dove ti ho trovato, in mezzo ai cigni tanto belli quanto cattivi. Lo vedi, ora, l’imbarcadero? Cerca le tue carpe, nei fondali con i sassi lisci e scivolosi. Prendi la via dell’Orrido, con il Pioverna che erode la roccia e plasma le pareti.

Guardalo, il tuo fiume. Mansueto e dolce alla foce, appena incontra l’abbraccio del lago.

Violento e fragoroso quando inizia il suo percorso alla sorgente, a farsi largo nella pietra che non tiene. Sei tu, quel fiume. E io mi sono illusa. Ho creduto che nel mio abbraccio potessi placare la tua ira e trovare la pace. Invece sei ancora quella Natura imbizzarrita e maligna, che scava e rovina, che nuoce a se stessa e agli altri. Non importa.

Ti ho amato, sai? Come si ama un folle.

Perché potevo curarti, io. E salvarti. Ti ho tenuto la mano quando volevi un’altra dose. Ti ho cullato, sussurrando ninne nanne improvvisate, quando mi imploravi quantità massicce di calmanti. Ti ho coperto, quando sei uscito nudo sul balcone a urlare che morivi. O mi uccidevi. Mi guardavo nello specchio e non vedevo più me, la mia faccia tonda come una luna nel cielo terso di maggio. Vedevo una prugna secca e amara. Vedevo te, che mi mangiavi le guance come il fiume mangia la roccia.

Ti ho amato, sai? Ti amo. Per questo adesso ti imploro di andare.

Di allontanarti da me, che forse ti ammazzo tutti i giorni con il mio perdono. Con il mio amore. Aiutami a farti andare. Portati là, nella gola della montagna. E lì decidi. Se buttarti o rimanere su. Se sopravvivere come un’erba medica insolente, che nasce dove non batte nemmeno il sole, ma ce la fa. E persevera. E non muore.

Ti ho amato, sai? Ti amo. Per questo da oggi ti restituisco al fiume”.

Il treno arriva. L’uomo piange piano. Sono lame sottili, bagnate. Sono gli schizzi delle cascate furiose, in mezzo alle rapide tra i massi levigati.

Adesso lo sa. Adesso sa che lei lo salva davvero.

Per questo piange, fa uscire quell’acqua che da tanti anni si tiene dentro e lo affoga. Annaspa, ora. Il fiato non arriva, però è soltanto un attimo, perché poi il cuore ricomincia a battere regolare, sicuro.

Il fiume entra nel lago, butta dentro tutto. Il bene e il male.