Negativo.

Questa volta non mi salverò con l’ottimismo, con l’ironia pungente che sempre mi accompagna, da quando ho un po’ paura.

Alla fine è successo: ho finito tutti i bicchieri mezzi pieni.

Cammino verso il parcheggio e so che devo entrare in macchina, aprire la busta degli esiti con calma. So che i sintomi ci sono e non li posso più ignorare. Il dottore sospetta un ritorno del tumore, con i polipetti cattivi che vanno in giro per il corpo a mangiucchiare i miei organi vitali.

A me è passato l’appetito. E dormo poco. E mi gira la testa. Sto così da troppe settimane. Comunque non lo voglio far vedere, perché non c’è cosa peggiore di un amico o di una madre che ti fanno già spacciato. E ti invitano a mangiare come fosse la cena definitiva, il pasto del condannato prima dell’ultimo miglio. Per questo vedo persone di cui non mi interessa più: perché se morirò non mi dispiacerà lasciarle.

Non abbandonerò una moglie o un figlio, sono uno scapolo incallito.

Un uomo solo. Sul giornale scriveranno che ero una brava persona e in paese aiutavo tutti. E poi 44 anni sono pochi per morire. Al cimitero mi metteranno vicino a mio papà. Questo è bene: non lo vedo da tanto. Dalla notte dell’incidente, quando in ambulanza un infermiere vivace mi diceva che dovevo star tranquillo e mi chiedeva cosa mi avrebbe portato Babbo Natale. Babbo Natale, quell’anno, non mi ha portato niente: anzi, si è preso qualcosa. Le uscite in bicicletta, gli allenamenti a pallone, le camminate nei boschi. Due occhi che mi guardavano sempre. E mi guardavano di sicuro anche quando nessuno mi vedeva, quando ero una ranocchia galleggiante, o forse plancton, nella pancia di mia mamma.

La strada verso il parcheggio è lunghissima.

Alla fine non riesco. Cedo. Appoggio il sedere al cofano e strappo la busta. Devo leggerne il contenuto, altrimenti potrei morire qui, adesso. Per precauzione.

La parola NEGATIVO mi fa trasalire. Non sono malato, dunque? Non tocca a me, ancora no?

La ruota ha girato di nuovo. I miei dolori sono solo nella testa.

Il mio male, allora, è sempre lei: la paura di qualsiasi male. Tra cinque giorni lo rifaccio, questo esame. Non mi ha convinto, no.
Passa un vigile, mi vede così: a parlottare sommesso dentro l’aria, con una busta aperta in mano. “Signore, tutto a posto?” Non so cosa rispondere. Forse no. Sono deluso. Ero pronto al calvario: mi serviva, avrei preso quel destino con forza e con rassegnazione. Mi vedevo, un poco eroe. E invece no. Sono fermo, a questo giro. Stasera chiamo Ivan e ci facciamo la birretta che ci promettiamo da mesi. Ho anche fame. Ah, guarda: un baracchino. Quasi quasi mangio.

Quasi quasi vivo.