Acqua sotto la grondaia.

Che film bellissimo deve essere. Da consumare tutti i fazzoletti che hai in tasca.

La storia comincia alle due di pomeriggio, abbiamo deciso di andare al parco.

Le nuvole si rincorrono nel cielo rarefatto, come le lettere e i numeri sul display del cellulare. Come i ricordi. I pensieri.

Due raggi di sole e si scaldano le ossa, per noi lucertole stanche del tempo incerto, che ci fa parlare con gli sconosciuti alle fermate degli autobus ritardatari.

Belli quei pantaloncini beige, ti fanno due gambe da fenicottero altero che te le stringerei e morderei e pizzicherei solo per vedere come fai, se ce la fai, a distruggere il piacere che ti sale dalla polpa delle cosce.

Camminiamo, vuoi?

Mettiamo un piede dopo l’altro, parliamo della scuola. Di quella tipa che ti dà il tormento, ma tu allo Tsunami sabato ci vai? Branco di stronzi, con il fratello di Carrara. Come si fa, a postare quelle foto lì? Poi sua madre beve. Branco di idioti.

Che labbra che hai, mentre parli.

Le emme ti escono come la punta di un orgasmo rubato, sotto il banco. Che voglia di prenderti. Di darmi. Di confonderci i muscoli e la pelle. Di infilare la mano nella tua patta gonfia. Tra i tuoi capelli che odorano di balsamo alla cannella, come una notte di Natale a far l’amore sul tappeto messicano. Davanti all’albero con le lucine.

Potevamo portare lo skate, guarda i tipi là in fondo, che ridono come pazzi zigzagando tra le bottiglie di Heineken vuote.

Dai, dammi la mano. Ti sfioro il gomito.

Che serio che sei. Già abbronzato perché hai aiutato tuo padre coi mattoni, sabato pomeriggio. Sei uguale a tuo padre, lui che è un bravo maschio dominante. Pelo selvaggio e canottiera, mani guaste da carezze pesanti.

Tuona? Oddio sì, tuona.

L’hai portato l’ombrello, tu? Ma no, ma dai. Ho la felpa. Che aria. Fa un freddo che entra nel collo.

Perché stai lì? Non mi scaldi? Sono un iris sferzato dal vento.

Prendimi in braccio come una sposa, varchiamo quella soglia che ti fa orrore.

Corriamo, mi dici. Torniamo alla macchina.

Io ho la macchina di mio fratello oggi. Il viale alberato è lungo, tu mi stai lontano. Com’era bello, prima, nell’erba calda di sole. Un abbaglio che uccide. Che trafigge e fa sanguinare i cuori illusi. Adesso i passi sono lontani, svelti: disarmonia di asfalto dissestato. Aspettami, dai.

Inizia. Temporale violento.

Gocce grosse come secchi colmi. Sferzare fitto. Tu imprechi. Perché? I capelli sono fradici, mi cadono sugli occhi.

Ma è meraviglioso. Con te, nella pioggia.

Nel bagnato che cresce, che diventa onda, che ci trascina al mare di anemoni e conchiglie. Poi è grandine, nocciole biancastre che fanno male. Vai veloce e quasi ti perdo.

Questa tempesta è noi.

Ti fermi arrabbiato, controlli dove sono e a destra trovi una tettoia stretta, porto piccolo, ma sicuro.

Mi afferri, mi porti via dall’oceano duro. Impetuoso. Vicini. Stretti.

Corpi caldi nonostante la superficie fradicia. Infreddolita. Il mio indice sul tuo avambraccio. Pupille che si trovano. Non si lasciano. Sibilare nelle orecchie, toc e pac della grandine sui tetti, sulle auto, sui destini della gente che scappa.

Com’è stretta, la tettoia. Come ci tiene addossati, pelle contro pelle.

Ti scrolli l’acqua dai capelli, mi cade negli occhi. Scusa. Mi sollevi il mento.

Baciami.

Lo fai. Lo fai adesso. Mi baci dentro lo stomaco. Mi anneghi più dell’acqua. Non sono io. Non sei tu. Sì. Sei tu. Che te ne freghi di quelli che ci vedono. Che mi tocchi, mi frughi. Sotto questa grondaia gocciolante che è diventata una zattera nel mare ostile dei nostri giorni, una parentesi tonda e perfetta in un finale infame. Un istante di verità, dentro un tempo ipocrita di menzogne chiare e sorrisi ebeti.

I sorrisi della gente.

Quella gente che adesso ha davanti due ragazzotti muscolosi di quinta superiore. Braccia grosse e abbronzate. Barbe sparute e grevi.

Due naufraghi madidi di pioggia e di sudore.

Che si baciano. E tra poco si metteranno a far l’amore.