La torta di carote.

Oggi, che sono già le cinque e sono qui da solo, oggi che ho finito presto di spazzare il vialetto condominiale, può essere un momento buono.

Allora lavo le mani, metto il grembiule rosso dell’ultimo Natale, e provo.

Faccio la torta di carote.

Prima le uova, tre.

Le ho prese da Vincenzo, quelle buone, altro che quelle del supermercato da allevamento a terra. Queste qui le ho prese io, appena fatte dal sedere della gallina, pluff, sulla paglia morbida. Mi sono messo lì, dentro il pollaio stretto e ronzante, e ho scovato i tre regali caldi e lisci. Concentrato di forza, vita in nuce.

Però come le rompi tu, Wilma, con quel polso sicuro e leggero, io non ce la farò mai.

Colpo secco, contro la ciotola. La marmitta, mi dici. Taglio netto. Ed esce il tondo sole giallo, tutto proteine.

Ho pesato 300 grammi di farina.

Com’è bianco il tavolo, quel giorno: con Morena piccoletta, che vuol fare tutto lei. Farina dappertutto. Siamo stati al Parco degli Animali, giornata di fotografie e di noccioline. In macchina ha sonnecchiato per due ore e di ritorno a casa è sveglia e arzilla come un grillo serotino: noi, sonnambuli felici, a farle preparare i biscotti al cioccolato. Quelle manotte coi buchini che impastano contente, spargendo nuvole di polvere bianca tra mobili e piastrelle. Se non ho avuto l’asma lì, credo non l’avrò mai più.

Adesso metto il burro, tanto burro, ché mi piace tanto.

Non arrossire, Wilma. Lo abbiamo usato sul tuo corpo bruno, quella volta. Fuori c’era il mare, ci eravamo andati insieme dopo poche settimane dalla prima uscita, il giorno dopo il primo bacio. Ho preso la Vespa di mio fratello e ti ho detto: ti porto nelle onde. A far l’amore sugli scogli solitari, mentre il sole si tuffa nell’acqua arancione. In camera la notte non abbiamo dormito un istante, solo verso mattina, stanchi, sudati, salati. E a colazione ti ho portato giù dai pescatori, a farti toccare il polpo viscido. Profumo di forziere nel fondo dell’oceano rigoglioso. Bella, Wilma mia. Ridente, Wilma mia.

Le carote sono grosse, le trito con il tritatutto.

Che rumore, un rumore volgare che mi aggredisce le orecchie, picchia contro un ipotalamo stanco, impreparato. Morena è stata investita, era in motorino. Wilma disperata, mi dai la colpa. Ma dov’ero? Morena scappava da un uomo. Sposato. Cosa succede, Wilma? Che abbiamo fatto? Salva, per fortuna. Tu mi graffi l’avambraccio, prima di entrare nella stanza bianca, regno di monitor e calzari. Morena c’è, Morena deve solo curare il cuore, adesso. Le gambe no, quelle torneranno a camminare.

La metto in forno ora, la teglia con l’impasto denso, a pezzi appetitosi. Lievita a centottanta gradi, diventa buona, diventa speciale. Come te, Wilma. Tu che mi fai le torte la mattina presto, perché poi devi aprire il negozio. Tu che stai sveglia fino a tardi, per lavare i piatti sporchi. Tu che mi baci sotto il pergolato dei kiwi appiccicosi. Wilma buona come il pane, come la torta di carote. Wilma viva, sempre viva.

Si raffredda piano. La mangio tiepida. “Ti fa male alla pancia, Ivo!”

La tua voce è qui. Mi giro.

Il corridoio è vuoto.

Wilma fantasma, Wilma addio.