Ferragosto. E un aquilone.

L’ho sentito arrivare da lontano, con quell’idioma caldo e confuso che ascolto da qualche mattina: una lingua speziata del Nord Africa, che porta alla mente tramonti infuocati, mercati gremiti, ceste colme di datteri grossi come uova.

Da alcuni giorni vengo in spiaggia quasi all’alba.

Cammino dove il mare fa un passo indietro, nella notte, e lascia scoperta una battigia liscia e vulnerabile, carica di gusci e stecchi. Da una parte le onde, dall’altra gli ombrelloni ordinati come un plotone di soldati al mattino, fieri. Poi incrocio lui, il venditore di aquiloni. Cappello di paglia e blusa gualcita, larga. Pochi denti. Tutti spezzati e neri. Lo immagino venire giù da un barcone, in qualche isola del Sud. Lo sento portarsi dietro quell’odore, nei buchi della pelle.

Lo so, che odia il mare. E la gente.

Mi sorride, con quel taglio amaro che ha nella faccia: bocca sempre asciutta, grotta di parole vane. Di sforzi sovrumani.

Questa mattina si fa coraggio e mi avvicina. Mi porge la cordina trasparente che tiene uno dei suoi aquiloni: un pipistrello, forse. O un draghetto, non so. Un essere che vola, scaturito dalla fantasia di qualche scrittore per bambini, sconosciuto e infelice. Esito per una manciata di secondi. Poi acconsento alla sua offerta e afferro la cordicella: l’uomo mi fa segno di andare. Mi muovo, allora. Con lui che mi cammina al fianco.

Perché è così, con l’aquilone non si può star fermi: si deve sempre andare.

Lo capisco subito. Che questa è la mia vita che mi parla. Che qualcuno mi ha mandato un venditore bonario e sdentato, per darmi un messaggio attraverso un aquilone.

Sono io, quell’aquilone.

La nuova me. Mi libro nell’aria tersa del giorno che nasce, svolazzo leggera assecondando i venti. Sotto c’è la spuma tranquilla del mio mare. Mi sono liberata di tutti i miei pesi: non ci sono lacrime, notti insonni. Non ci sono sedute dallo psicologo. Non le gerbere sulla tomba di lui, che non vuole morire mai. Lascio andare i denti che mordono le mani durante il funerale. I richiami al lavoro, le sigarette fumate a metà. Gli svenimenti al supermercato. La voce incessante di mia madre, che mi implora di guarire, di aiutarla a donarmi la vita, ancora. La nuova me vola. Si alza sempre più in alto. Adesso è una bambina con la bocca spalancata sulla ruota panoramica. Può tutto, la nuova me. Nella volta del cielo sereno, ha di nuovo infinite possibilità.

Eppure la nuova me non potrebbe esistere e volare e farsi accarezzare dalla brezza dell’alba senza quella corda e quella mano ferma, pesante. Senza quei piedi uno dopo l’altro, che sono sempre io.

Ancorata alla terra della mia vita, del mio passato.

Quella forza che sono i miei dolori, le mie gioie, i miei amori: la vecchia me, che mi ha fatto arrivare fino a qui.

Mi guardo da fuori, allora. Come mi vede il venditore, che pian piano mi sorride. Io sono l’aquilone leggero che sale e vola in cielo. Ma sono anche la mano che lo porta e non lo fa sparire tra le nubi. O cadere. Quella mano che è la somma di tutto: ogni parola, ogni sorriso. Ogni lacrima, ogni pensiero. Ogni sguardo. E come faccio a far convivere queste due parti di me? Una tanto lieta e leggera, nuova e fiduciosa, e l’altra seria e pesante, vecchia di una vita?

È semplice, naturale: basta andare avanti. Basta continuare a camminare.

Solo così l’aquilone può proseguire il suo volo. E amare quella mano di cui ha bisogno. Per vivere davvero. Quella mano che è un passato che sostiene e dà una direzione. Quella mano che è esperienza, bagaglio.

Abbiamo fatto così tanti metri. Io, l’aquilone e il venditore. Nessuno parla. Ma ci sono parole silenziose, che riempiono i vuoti e scaldano gli spazi in mezzo agli occhi.

“Lo voglio” gli dico.

Lui fa cenno di sì con la testa. Lo sapeva. L’ha sempre saputo. Doveva solo aspettare il momento giusto.

“Tenga”. E gli spingo in mano una banconota da venti euro. “Vada a mangiare qualcosa di buono. È Ferragosto, oggi”.

E penso a Maria, che oggi è assunta in Cielo. Come me, come il mio aquilone.

Lui mi osserva, fa il solito sorriso buono, bucato e nero. Cerca il resto nel marsupio sbiadito e mi restituisce diciotto euro. Tento di oppormi, perché voglio ringraziarlo, rendergli il favore di questa camminata insieme, che è stata un percorso di rinascita, in realtà. Ma lui mi ferma.

E mi dice: “Vendo soltanto aquiloni”.

Così si allontana, si porta via altri voli, altri sogni, altri riscatti. E io penso che no, non vende aquiloni. Regala consapevolezza, piuttosto. E coraggio. E la forza di vivere la vita che si ha. Giorno dopo giorno.