Tutto scorre.

Ancora piove. Piove da giorni.

La giornata parte bene, luce coraggiosa al sorgere del sole, poi dalle quattro di pomeriggio il cielo si oscura, diventa nero e viola. Si alza il vento e Zeus scatena il temporale. Ci sto facendo l’abitudine, a quest’aria che mi sferza quando cammino qui, dopo il Ponte dei Leoni. Non porto mai l’ombrello. E mi sporgo a guardare il Lambro, come è grosso, come corre, adesso, questo fiume che di solito è secco, magro. Un corso d’acqua che ristagna. Ora invece, guarda come è fiero del suo incedere impetuoso. Grazie alla pioggia, che lo ingrossa ancora un po’.

Quanti anni sono che vengo qui, nel pomeriggio tardo? Tanti, almeno dieci, dall’inizio della mia pensione. Finisco il turno all’Arengario, faccio volontariato nelle mostre d’arte e di fotografia.

Poi mi incammino verso casa e mi godo il tempo che ho.

Con la pioggia soprattutto. Lasciami fermare un attimo, tanto ho su l’impermeabile. Vedi, là, sulla sponda: c’è mia moglie Gina. È andata dalla parrucchiera, ha fatto la permanente anche se a me non piace, mi pare che la invecchi. E poi quel biondo finto, giallo paglia, perché? Com’era mora e vellutata, quando avevamo diciannove anni e alla domenica alle cinque la portavo al cinema: le prendevo la mano, piano, leggero, come a una bambola di porcellana. Arriva anche mia figlia, ancora quell’espressione arrabbiata: si accanisce con il marito, non hanno bambini, già tre anni di matrimonio e fanno un amore da orologio, l’amore meccanico degli ovuli e dello sperma. Caterina adesso basta: io e tua madre, proprio quando non ti cercavamo, ti abbiamo incontrata sulla nostra strada. Ti abbiamo raccolta con il tuo ciuffetto di pelini rossi in testa, la tua voce sgraziata, un uccellino disperato. Non farmelo ripetere, dai. Hai portato Baldo? Vecchio compagno di avventure. Un bel segugione italiano, che ha il pelo raso e puzzolente quando piove. Quante lepri Baldo, al sabato mattina. Poi entravo a scuola e ai miei studenti non potevo dirlo: tutti animalisti, tutti sinistrorsi, tutti di puntiglio.

Solo le cose belle rimangono qui, sulla sponda.

Tutto il resto lo porta via il fiume grosso. Panta rei, diceva Eraclito, il filosofo: tutto scorre, tutto va. E magari neanche torna. Vedi perché mi piace l’acqua? Del fiume e della pioggia. Perché lava. E tiene la terra pulita. Il cuore lindo e puro.

Non ci sono più parole cattive, gesti violenti. Ci sono solo ombrelli nelle mani. E piedi zuppi.

C’è uno sguardo che va avanti e si scorda la paura.

Chi sono quei due, Gina? Avranno otto anni. Maschio e femmina. E mi sembrano la Caterina quando faceva il saggio di danza in terza elementare, camminano volando. Come sono belli, Gina. Mi viene da portarli in bicicletta. Da comprare un gelato tutti insieme. Ma da dove vengono? Arrivano dal fiume? Sono caduti con la pioggia?

Entro in casa che lascio le impronte bagnate, rumore fastidioso.

La voce gracchiante di Gina: “Silvano, le scarpe! No, dai. Oggi non ti sgrido. Oggi sono brava: oggi non ti posso urlare dietro”.

Mi affaccio dalla porta della cucina e c’è Caterina sul divano rosso, gli occhi lacrimosi.

“Papà, guardami. Aspetto un bambino”.