In bicicletta.

“Quanti ne hai, adesso?” gli chiedono.

“78, ma ho trovato l’Uovo!” risponde lui, con un sorriso fiero, largo.

“Ma lo sai che devi fare 10 km per farlo schiudere? Chiedilo a tua madre, tanto lei ti porta in macchina!” commenta Luca, maligno.

“Bravo, diglielo! O magari per una volta vai a piedi e ti fai scendere quel culo flaccido che ti ritrovi!” Ivan dà sempre ragione a Luca. E rincara la dose.

Le loro bocche esplodono in una risata sguaiata, infinita, che fa sbandare la bicicletta nuova di zecca.  Cesare non ride. Pensa al suo Pokédex, bello pieno. E capisce che non serve a niente.

Ivan, Luca e tutti gli altri della classe, della squadra e del bar dell’oratorio, lo chiamano solo perché così hanno qualcuno da prendere in giro. Il grassone sfortunato, che a dodici anni ha ancora la faccia da bamboccio e, in più, un principio di acne terribile. Buchi fondi di emmenthal che schifano i topi più affamati.

È anche povero, Cesare.

Non povero nel senso che non ha da mangiare. Povero nel senso che non ha ancora comprato l’iPhone7 e non indossa nemmeno una firma, ma si fa andar bene le cose che gli prende la nonna al mercato. Lui vive da solo con sua madre. Il padre se ne è andato quando aveva pochi anni. Cesare si ricorda solo di una mano, una volta, al parco giochi. Vede questa scena, nelle notti in cui vorrebbe non svegliarsi, non alzarsi, solo per non camminare in mezzo alla gente. Solo per non sentirsi diverso.

O almeno per sentirsi uguale al buio, quello fitto, che fa tutti bellissimi. E cattivi.

C’è uno scivolo alto e lui ha appena imparato a camminare. Sale veloce per la scaletta. Poi qualcosa non va come deve e il piede sinistro fa un passo falso, dubbioso. In quel momento c’è la mano di suo padre, lo afferra con vigore. Poi un abbraccio, una carezza che consola. Qui di solito Cesare si sveglia.

Non si sente sbagliato, perché da qualche parte, lui lo sa, il papà lo afferra ancora. Solo che ha perso la strada.

E allora Cesare deve andare avanti da solo.

È successo che è una prova della vita, questa cosa di andare in bicicletta con gli amici che sono più nemici dei nemici dei fumetti americani. È successo che tutti hanno i propri dolori. E il suo non è nemmeno male: si può affrontare, ecco. È successo che lo deve a sua madre, a tutti i cuscini bagnati che le escono dalle ciglia: lo deve a lei, sopravvivere. Allora Cesare pedala. Scova qualche Pokémon sul ciglio della strada, poi si mette nelle orecchie i suoi auricolari gialli. Per un attimo ripensa a Giulia, che sul pullman forse gli ha stampato in faccia un minuscolo sorriso. O forse era solo un raggio di sole dal finestrino.

Prende tutto il coraggio che può.

Perché ha capito che è facile fare gli eroi una volta ogni tanto, quando arrivano i cattivi. Il bello è farlo tutti i giorni, quando i cattivi sono dappertutto. Nascosti.

Cesare lascia perdere. Non perché non gli importi, ma perché sa che una corazza levigata e repellente è l’arma più efficace. La costruisce piano. La sera, prima di dormire, fa la conta delle cose belle. Sono poche, ma riesce a vederle. Ed è forse questa vista, un occhio forte, grande come un dono, la più bella delle cose belle.