Un ragno sul muro.

Mi apposto. Allargo bene le zampe, mi tengo saldo al muro giallo, poroso.

Attendo che qualcuno mi veda. E strilli. Oppure rimanga bloccato, atterrito dal mio corpo peloso, fosco come un cranio smunto dietro la porta, quando salta la corrente. E fa buio.

Il buio lo tocchi, certe volte, tanto è spesso. È lì che mi piace stare.

Sono anche preciso, resistente, meticoloso, quando intesso la mia tela. Perché adoro aspettare, immaginare quando arriverà.

Qualcuno incappa sempre, nel mio tranello piccino.

L’altro giorno ho trovato una donna che ha capito. Ci stava cascando: le ho allungato un fiore, nel reparto frutta e verdura, appena sopra il carrello che aveva zeppo di pietanze surgelate. Una mammina buona, gonna al ginocchio. Mi ha visto che mettevo a posto i kiwi acerbi.

Però non mi ha dato confidenza, moschina sospettosa. È tornata dal maritino traditore, ma gentile.

 Tra poco, invece, esco con lui. L’abbandono lo ha portato fino a me.

Era stanco di far finta, di essere normale. Io lo osservo dal muro, per quello che è: un vecchio maschio duro, un militare valoroso. Che impazzisce, se nessuno lo vede, per le bocche aride degli uomini. Lo sa, lui, che sono un ragno.

Però non sa che lo ammazzerò. Non ho deciso ancora come. O quando. O dove.

Ma succederà. Succede sempre.  E non serve a niente, aver paura.