Un bicchiere di monete.

Ci sono i giorni che fa caldo. Ma tanto.

Con l’afa che schiaccia le tempie, che ti pulsa anche nei piedi. Io i piedi li tengo nelle ciabatte di plastica da metà maggio, perché preferisco farli respirare: ho notato che ragiono meglio e la gente ricca mi guarda volentieri. L’aria che arriva dal basso aiuta i cervelli che non sono abituati a pensare.

Al tramonto, ieri sera, è arrivata una famiglia triste, gente del Nord: lei bella di una bellezza che era, e che adesso è ricordo in una foto consunta, dentro il portafogli di pelle battuta. La bambina vestita a puntino, tutta rosa come quel gatto indemoniato delle cartelle e dei cartoni animati. Lui un uomo perbene, soddisfatto della sveglia che trilla forte la mattina. Sono entrati nella Cattedrale. E io “Signora…per mangiare”, ho teso il bicchierino del caffè che mi sono bevuto la mattina in Comune, con Mariuccio. In realtà gli euro me li uso al bar, un camparino e un po’ di slot, perché mangio con la disoccupazione ormai da qualche mese.

Non è stato male perdere il lavoro: era un’azienda piccola.

Una mattina (e i più bravi lo avevano capito già da un pezzo, dentro i corridoi) è arrivata una mail che parlava di crisi, di capitali, di liquidità. Una mail che finiva ringraziando tutti. Che ci invitava, in tre settimane, a fare le valigie. Qualche soldino lo abbiamo preso. E poi io ho gli agganci giusti. E il lavoro non l’ho più cercato per davvero: se lo trovo, mi ritocca lavorare. Invece mi pulisco poco, non mi lavo più i capelli e non mi cambio i pantaloni per un po’.

Vengo qui o in un’altra chiesa.

Mi siedo fuori dal portone laterale, sinistro, e piango silenzioso: faccio finta di essere pezzente. Tanto anche prima nessuno mi voleva ed ero come un bastardo pulcioso del canile, solo che dovevo mettermi il deodorante e una maschera con il sorriso. Adesso sono meno solo. Perché la gente almeno mi risponde “No, mi spiace”. E penso che prima, invece, nessuno si dispiaceva per me. Un bambinetto delle elementari, poco fa, deve averlo capito: perché si è avvicinato quatto quatto, mentre la mamma diceva una preghiera e cercava uno scialle per coprirsi le spalle nude, ben tornite. È arrivato con la faccia da peste catarrosa, con la tosse che buttava in giro milioni di batteri: teneva lo sguardo sui miei piedi. Neri. Nelle ciabatte consumate dal bitume che ribolle. Devo essergli piaciuto, il poveraccio che chiede l’elemosina.

Il poveraccio che puzza davvero.

Ha allungato la manina astuta dentro il mio bel bicchierino, colmo di doni generosi: gazza ladra maledetta. Quattro euro mi ha rubato. E mi prendeva in giro.

Io però non ho potuto fargli male. Perché è un bambino. No, non perché è un bambino.

Perché mi sa che è uno dei pochi, volpe odiosa che ha capito cosa sono.