Un varco nel muro.

Scricchiolano sotto le mie piante larghe, questi ramoscelli che non portano alcuna pace. Li sento dai nervi che mi stringono il piede, mentre cammino e penso. Passeggio in questo giardino che non sentirò mai mio. Olmi, querce. Una betulla elegante e solitaria, che mi viene da incidere con il mio nome, come quando ero bambino e non andavo a scuola.

Mi avvicino al muro di cinta, che contiene il parco. Pigne, che se mia sorella le vedesse si inventerebbe un appendino originale per l’alberello di Natale. Edera, un’infinità di foglie d’edera che si arrampicano sulla pietra, salgono fiere, aggrappate alla parete, come condannati che non chiedono altro se non vivere. E sopravvivere.

Dammi oggi il mio pane quotidiano. Dammelo adesso, perché ho fame.

Ho una fame nervosa, da quando l’ho vista passare, questa volta scendeva dal treno. Non aveva i tacchi, ma quelle gambe leggiadre, secche, avevano un moto di fenicottero indeciso, superiore. Ha accompagnato sua madre dal fruttivendolo, l’ho vista dalla vetrina: ha scelto le nespole, che adesso diventeranno subito mature. Nel cestino con le mele. La madre ha insistito per portare la sporta, lei l’ha presa con tocco deciso. E stava un po’ sbilanciata, obliqua, mentre metteva un passo dopo l’altro. Con il rischio che la sporta la facesse andare giù, contro l’asfalto. Ma niente le impedisce di librarsi. A qualche centimetro dalla terra. Vicina abbastanza per sentirne l’odore, e al contempo lontana, per salvarsi la pelle. Le ossa.

Sono arrivato al punto, ecco: qui c’è la fessura.

Un varco nel muro, una ferita. La parete qui è lacerata. E si apre uno squarcio che vuol dire fuga. Ma anche attesa. Da un po’ di tempo mi metto sotto qui. Tiro fuori dalla tasca la fotografia della mia nonna, che mi voleva così: nero austero. Nero importante.

Dimmi, nonna, cosa devo fare.

Lei mi sorride. La vedi, nonna? Mi cerca con gli occhi, con la bocca. Quando viene a portare i vestiti per la Caritas, quando andiamo nelle case a dare le benedizioni. E mi guarda. Come mi guarda. Mi fa male tutto, quando mi guarda.

Cosa faccio, nonna, sotto questo varco dal quale passa una luce che mi taglia qui, sotto la gola?

Esco. Vado. Oppure no. Aspetto. Che entri lei e che mi porti via.

Sono passate quante ore? Ore calde, indecise. Il Signore è con me. Ma non mi dice cosa devo fare. Non sento la sua voce. Nemmeno nel sibilo del vento. Nell’ondeggiare delle foglie egoiste, tumultuose.

Devo dir messa, questa sera. E invece mi farei piccino, dentro il buco nel muro. Don Carlo mi verrà a cercare, penserà che dei diaconi non ci si può fidare. Io invece sarò uno scarafaggio, nero più del nero, nella fessura della pietra. Nessuno mi vedrà. Un po’ ancora aspetterò. Prenderò il lusso di non partire. Di non decidere, anche.

Forse a prendermi verrà il Signore, lui in persona.

Magari avrà la faccia di lei, le sue gambe secche e leggiadre.

Magari invece sarò morto. E questa attesa sarà un corpo mangiato dai vermi. Sommerso dalle pigne e dalle foglie.