Una panchina.

La panchina dov’era seduto è diventata un’ombra netta, stampata su una superficie di un bianco ruvido e lattiginoso, quello che gratta le nocche delle dita mentre cammini radente alla parete.  Mi sono appoggiata a un cancello lì di fronte, con il sole che tramonta alle mie spalle e una borsa della spesa più grande di me, che rischia di cadermi dalle mani a ogni passo.

Quanto pesa.

Questo pomeriggio ho comprato anche l’affettato, una vaschetta di prosciutto crudo che mi piace mangiare col melone, per fare serata di piena estate, che odora di citronella e grissini torinesi. Amava così tanto, lui, mangiare nella sua piccola veranda, anche quando il caldo umido lo faceva boccheggiare. Non ne parlava: non diceva, nemmeno a sé stesso, che la colpa di questo fiato corto erano quei farmaci violenti, invasivi. Le medicine che fanno bene da una parte e male dall’altra, sussurrava. Medicine che guariscono e uccidono nel tempo di una scheggia, l’istante di un ago nella pancia, di una pasticca nella glottide.

All’imbrunire si faceva accompagnare qui.

Alla solita panchina che dà sulla fontana dei tritoni maligni e ripugnanti, zampilli irriverenti che schizzano l’asfalto e si sciolgono in miriadi di molecole pungenti. Questo rifugio gli dava pace. Osservava anche le persone, poche, che passavano con piedi svelti, ombrelli sotto braccio, cani al guinzaglio.

Non mi chiedeva di sedermi con lui: era felice di essere portato e poi lasciato lì, soprammobile prezioso del paese, statua da erodere nel tempo. E poi vai, mi diceva: vai a fare le tue commissioni. Al supermercato, in lavanderia, in gelateria. O dal parrucchiere, se mi andava. L’importante era non stare lì, a occupare lo spazio davanti ai suoi occhi o accanto alle sue gambe, pilastri ancorati a una terra ricca, sempre sola.

Nessuno ha mai saputo quanto amore avesse dentro, prima che il cuore gli scoppiasse una mattina, nel freddo di un lenzuolo senza alcun ricamo. Le medicine gliele davo io, ero brava e puntuale, ma lui era capace di non prenderle, un eroe della menzogna. Suicida. Io, cieca, mi fidavo.

Mi odio, per non averlo mai scoperto.

Lo hanno scoperto in ospedale, quando ormai era alla fine, spacciato come un cane dilaniato da una macchina in tangenziale. Nessuno mi ha mai dato contro, nemmeno la figlia, che veniva a trovarlo qualche volta all’anno, con la solita espressione triste: “Sei strano forte, papà!”. Solo a me manca. Quando ho trovato le sue lettere le lacrime sono arrivate come un torrente imbizzarrito nella tempesta: quelle erano lacrime vere, che ti rovesciano il cuore. Il tipo di lacrime che ti fa entrare nel mondo. E fa entrare il mondo in te.

Salvezza, riscatto, liberazione.

In ogni lettera scriveva un pensiero, un insieme di parole piccole, mute. Forti di una forza che squassa. Mi ha inciso l’anima, questa frase. Ed eccola qui, che mi rimbomba ogni istante nella testa:

“Amo la morte, Marcella. Sei tu, la mia morte”.

Com’è vuota, questa panchina. Silenziosa. Una tomba.