Dentro il mio furgone.

Passo tanto tempo su questo mio furgone. Il lavoro è sempre meno, ormai. Allora giro.

E non importa se consumo tutta la benzina.

Sono un imbianchino, un pittore, uno che viaggia con la tuta bianca a macchie arcobaleno, che porta i colori nelle case delle persone.

L’altro giorno ero in un villino nel Lecchese, bello. Un nido d’amore gentile. Casa pulita, che odora di nuovo. Un amore fresco, con le cornici d’argento e le foto del sì. Con la camera vuota che aspetta la culla e il portapannolini. Mi ha chiamato lui, è un amico dell’amico di mio fratello. Qui funziona così: il passaparola è tutto, nel mio settore. Ho fatto finta di avere l’agenda piena. E invece era la prima telefonata in otto giorni di giri a vuoto sul furgone.

Ho conosciuto prima lei. Mi ha aperto la porta, il pomeriggio del sopralluogo. Una donnina giovane come un passero delle fiabe: un fiordaliso di un metro e sessanta, magra. Con un viso pulito da oratorio feriale. Lui invece è arrivato dopo. Spavaldo. Torace di chi nuota, sicuro.

Appena lei si gira, lui mi si avvicina: “Hai visto come è brava, la mia sposina? Son fortunato, io. Con la mia bambina“.

Lei fa finta di non ascoltare, ma il rossore gentile delle guance mi rivela che il suo udito è molto buono. Sorride. E mi offre una fetta di crostata fatta in casa.

La mattina che inizio i lavori vengo solo io. Le stanze sono piccole e non chiedo aiuto né a mio cugino, né a mio fratello.

Mi accoglie la moglie, che sta preparando biscotti e budino.

È sola in casa: il marito è andato in officina. “Non le dispiace se mi sente canticchiare, vero?” mi chiede. Non cammina. Levita a dieci centimetri dal parquet iroko.

Sono al primo piano, nella futura camera del pupo. Sto dando la prima mano di bianco, quando sento aprire la porta al piano terra.

Parlottare sommesso. Stoviglie urtate. Colpi sordi. E tonfi. Sedia trascinata sul pavimento.

Mi affaccio discreto dal corridoio, butto l’occhio dalle scale. Intravedo due corpi avvinghiati.

C’è la sagoma di un uomo dietro di lei, la mogliettina. Che si fa prendere in piedi, appoggiata al tavolo della cucina.

Ansimare che cresce.

D’un tratto, prima che mi possa allontanare, la sagoma corpulenta e scomposta del maschio in amore si stacca e si gira verso di me.

Non è possibile. Mio fratello.

Pupille dentro le pupille.

Lentamente, si chiude la lampo dei pantaloni.

Guarda lei. Poi mi sorride. “Mario. Va’ che ti ho portato la vernice nuova. L’ho lasciata fuori, dentro al tuo furgone”.