Due o tre fette biscottate.

Basta, mi fermo. E poi comunque non mi vanno.

Tre fette biscottate sono tante, ormai sono indigeste.

Sto meglio se ne mangio due. Mi sento più sveglia, più tranquilla. Sì, perché più mangio, meno sto bene. Prima mi arriva addosso quella fame, che mi sembra salga su dai talloni, dai polpacci, dalle cosce. Entra nello stomaco e poi nella testa, la fa sembrare vuota, farfallina. La faccia mi diventa bianca, gli occhi velati di una nebbia lattiginosa.

Allora devo ingerire qualcosa. Qualunque cosa. Mi impegno a controllare che non abbia sale, glutine, lievito, uova, burro o soia.

Mi sforzo, certe volte, di inghiottire l’aria.

Ma il cuore mi batte forte e mi trema la parte posteriore del ginocchio. Allora tappo tutto. E mangio: poco, ma mangio. Mangio come un condannato al suo ultimo pasto. Un naufrago che trova un mollusco sulla spiaggia. O un clandestino che scende dal barcone e addenta un pezzo di pane sugli scogli di Lampedusa. Mangio come un uccellino dal becco enorme, spalancato.

Come una che, in fondo, non riesce a odiare la vita. E rimane sempre appesa a quel suo filo.

Per paura? Per amore forse. Mangio.

Dato che, però, la voce nella testa non si può sopire, poi avverto quella rabbia. Mi sento quel peso lì. Dentro nel mio corpo che diventa un mattone, ancorato al pavimento tra calcinacci dolorosi: cerco di vomitare, ma in realtà non mi piace vomitare. E ho paura del male, del bruciore all’esofago e alle mani. Allora, per circa dodici ore, riesco a non introdurre niente nel mio corpo asciutto e spigoloso.

Un corpo che non sarà mai un tempio.

Eppure ci sono arrivata vicina, due anni fa: mio marito era ancora mio marito, aveva le fossette ai lati della bocca, perché rideva. Io avevo fatto il test qualche settimana prima: un positivo da urlare a tutti gli altri, esplosione di felicità. Esplodevo tanto, che non ho cambiato la mia vita, non mi sono mai sdraiata: mi sentivo così forte, vincente e invincibile. Nulla di male mi poteva accadere: un corpo che cresceva, un amore che diventava immenso. Infinito.

Poi una mattina. Sangue. Fiotto senza fine.

E le parole taglienti del dottore del pronto soccorso: “Si doveva riguardare, signora. Si doveva fermare. Al quarto mese non si tiene un ritmo così”.

E tutti a dirmi che non era vero, che non era colpa mia. Che era destino. Ma che destino?

Adesso il mio destino è morire di inedia.

Il mio corpo mi ha tradita, infame. Non lo voglio, non lo voglio più.

Voglio essere soltanto brezza. Impalpabile.

A che mi serve mangiare? Se ho un corpo che non riesce a tener dentro la felicità? A che mi serve vivere, allora?

Questa sera non ceno. Tanto sono da sola. Luca è uscito. Luca presto se ne andrà via, come il suo bambino.

Rimarrò io, con due o tre fette biscottate.

Mi basteranno per una settimana. Sette giorni per trovare il coraggio di chiudere la bocca davvero. E dissolvermi nell’aria. Insieme a quel pulviscolo che mi è entrato nella pancia e non ho saputo nutrire.

Conservare.