L’uomo di ferro.

Bagliori e lapilli. E poi un fulmine, tra i palmi delle mani. Creo un piccolo vulcano rumoroso, sono l’artefice di una minuscola eruzione controllata. Io sono l’uomo senza faccia, il saldatore dentro la maschera massiccia.

Un’armatura stagna che protegge le retine. E salva il cervello.

L’uomo di ferro.
Lavoro in un’azienda che produce presse, respiro e rifletto in mezzo a frese, torni, macchine grandi. Che fanno grandi suoni. Nove o dieci ore in produzione, a generare pezzi perfetti. E trucioli di metallo. Mucchietti di segatura a spirale, che punge e taglia. Agli angoli sono cumuli di stracci informi e spessi, che sfregano tubi, ma non riescono a togliere il grasso, tanto è ostile. Nero.

Alle sei e mezza, tutte le mattine, vedo passare Bruno Magnoni, l’ingegnere. Baffo, barba e mocassino di velluto. È il figlio del padrone, il fondatore che ha messo su l’impero. 1961. Storia di successo che riverbera dai muri.

Un passato presente.

Che trasuda dalle pareti, dai pavimenti, dagli occhi e dalle dita di una ciurma di manovali fedeli.

Magnoni mi stima. Sono un operaio specializzato di origini pavesi. Sono italiano, uno dei pochi. Gli altri sono tutti immigrati. E il Magnoni per gli immigrati fa un sorriso stentato, dovuto. Gli fanno paura, con quelle facce colorate. E quei silenzi densi di fiato speziato. Però oggi l’industria va così. Se stai in Italia prendi gli stranieri. India, Nord Africa. Altrimenti puoi spostare la fabbrica in Romania. E lì prendi i Rumeni, appunto. Comunque la Magnoni S.p.A. rimarrà qui, tra questi campi di mais piatti, finché l’ingegnere avrà una memoria da preservare, un vecchio padre futurista da rassicurare.
Magnoni mi stima. Perché vedo tutto, ma non lo sa nessuno. Perché sto dentro un involucro a fissare le scintille, le pupille ben difese dietro una fessura che si oscura. Tu le scintille non le puoi guardare, devi abbassare le palpebre, ti viene da chiudere gli occhi. Per sopravvivere. Io invece li tengo bene aperti, sempre.

È la bocca che tengo chiusa.

Succede una notte. E quasi chiudiamo tutto, fabbrica, ricordi, preghiere. Il Magnoni quella volta lì ci ha perso la mano sinistra, fino al polso. Io l’ho visto, come Bilal, che ha bloccato tutto e poi ha chiamato l’ambulanza. Ma io ho visto di più. Qui non c’entra la sicurezza, non c’entra nemmeno il lavoro.

C’entra una passione che è come le mie scintille, che è meglio non vedere, se non hai addosso un’armatura.

È arrivata da un anno, che ancora studiava ingegneria meccanica, la figlia di Magnoni. Alta, soda, labbra che promettono parole bagnate, fianchi che ondeggiano come grano al sole. Percorso di carriera già tracciato: capo della Ricerca & Sviluppo, genio dei collaudi, vento di innovazione. Non so se fossero innamorati. Lei e Bilal, il nuovo operaio che Magnoni ha salvato dalla strada. Dal Bagladesh che lotta, sotto le gocce sporche e grevi del monsone.

Il guasto non c’era.

C’erano lei e Bilal che avevano fatto l’ennesimo amore tra le macchine grandi, nascosti al mondo.

Ma non al saldatore di Pavia, il saldatore senza faccia, con la bocca serrata. È Bilal che chiama l’ingegnere, questa pressa è pronta per il cliente svizzero, ma c’è qualcosa che non va, c’è qui anche sua figlia, venga venga Magnoni. Sei di mattina, cambio turno. Io sono già qui, io arrivo sempre prima. La mano che aziona la pressa, mentre Magnoni cerca un errore che non c’è, chino e interdetto sulla bocca del mostro di metallo immenso, è bianca e molle.

La mano di una donna.

È la mano della rabbia, della rivolta che erompe, che vuole cancellare un destino scritto. Una famiglia che ingombra. Impone.
Bilal vede l’arto maciullato, sangue che schizza, faccia atterrita. Ma no, non è così che deve andare.

Bilal adesso ha paura. Della femmina, soprattutto.

Io sono al mio banco di lavoro. Fermo tutto, mi tolgo la maschera, mollo la lamiera.

Raccolgo gli stracci e asciugo il sangue del Magnoni. L’ambulanza arriva veloce.

Non parlo. L’uomo di ferro è un supereroe: non è stato inventato per parlare.

Mesi dopo è evidente che il consulente del marketing ha fatto un ottimo lavoro. La reputazione della grande azienda è salva. Non è un guasto, non è una falla del sistema. È un esempio per tutti, dentro il grande calderone della sicurezza negli ambienti di lavoro. È solo l’operaio inesperto del Bangladesh, poverino. Ha schiacciato lui qualcosa, quando non doveva, cosa vuole, sa, deve imparare. Siamo stati ingenui, sì. L’ingenuità dell’altruismo, lo scriva lo scriva. Che spavento per la figlia dell’ingegnere, ora starà lontana dall’azienda per un po’.
Ma noi siamo cristiani, noi lo perdoniamo.

E stiamo senza mano.
Ciechi, sordi e senza mano.

Il poster nuovo per la reception è arrivato ieri. Questo pezzo è già passato. E deve stare ben presente addosso ai muri.

C’è la foto di Magnoni senza mano.

Sullo sfondo della produzione. Il logo. E una scritta piccola, a mano, che vedo solo io, credo. Amor vincit omnia. L’amore vince ogni cosa.