Il treno dentro la stazione.

Non ho mai imparato a guidare.

Ho paura delle macchine, da quando mio fratello, una notte che pioveva a fiotti, grandine e acqua, si è scontrato con una bicicletta sul ciglio della strada. E il ciclista agonizzante è rimasto a terra quasi un’ora, solo, con la testa demolita.

Che usciva il cervello, uscivano i pensieri, tutti insieme.

Gare clandestine, giri di gente che vive nel buio come roditori incattiviti e affamati, nelle periferie deserte, e mischia l’alcool e la droga al rombo violento dei motori.

Otto anni di galera si è fatto, mio fratello. E io che allora avevo tredici anni ho promesso a mio padre che non avrei guidato mai. Per non cadere in tentazione. Perché lo so che a noi il pericolo fa venir voglia. Il pericolo conduce al rischio. E il rischio alla cancellazione. E Dio solo sa quanto avrei voglia di cancellarmi anch’io, dentro un abitacolo puzzolente di sigarette e olio rancido.

Finire lì. Tornare da mia madre.

Dove sarà? Io dico che ci ride sopra, come quando avevamo sette anni e lei cantava, a mezza voce. Se stavi zitto, la sentivi bene. Anche quando chiedeva al vicino un “pane a piombo”, uno vecchio andava bene, per farci mangiare. “Per i bambini, non per me”. E queste erano parole nude, senza musica. Parole tonde nel silenzio di uno sguardo che tagliava. Lei allora aveva già le ossa fuori.

Io preferisco i treni.

Mi ricordano quel viaggio nell’estate del ’79, a Miramare con la mamma e con la nonna. Due piccoli uomini che giocavano a polenta sulla spiaggia. E alla sera mangiavamo un Mottarello in due, ché alla nonna veniva l’acquolina, la vedevi agli angoli delle sue labbra scure e strette, ma non ce lo chiedeva mai.

Faccio un biglietto speciale, che dura tutto l’anno e vale per tutti i treni.

In treno vado ovunque: al lavoro, in fabbrica. O a trovare i miei amici di Padova, per il torneo di calcio a sette. Da Piero, anche. All’ospizio di Santa Maria delle Grazie, a parlare di mia mamma, che Piero voleva sposare.

Oggi è un giorno di ritardi. Una domenica di temporali. Il mio treno è fermo alla Centrale di Milano. Mi affosso nel sedile, aspetto che mi facciano partire. Intanto guardo su, il gioco di ferro e cielo. Il tetto che copre e non protegge.

La cappa plumbea delle nuvole, che se ti prende non ti lascia mai.

Sono in ritardo anch’io. Forse l’unico treno che dovevo prendere è passato tanti anni fa. Sono stato attaccato a quei binari, quelli che percorre la gente normale. Con il rumore sempre uguale, ciu ciu ciu ciuff. Ciu ciu ciu ciuff. A farmi trasportare. Normale tra i normali, passeggero tra i passeggeri.

La mia faccia, dietro il finestrino. A non scendere mai davvero.

A non uscire mai dalla stazione.

Suona il telefono.

“Non so se ce la faccio, papà”. Il treno è in ritardo, papà. Magari adesso cambio mezzo e non ci vediamo più. Magari scendo dal treno. E salgo su un aereo.

Anzi magari divento pilota, papà.

“Il treno regionale 270486 è in partenza dal binario otto”.

Per fortuna. Si parte. Si torna.

Perché i binari non li sposti. Quelli sono sempre lì. Non possono cambiare.