La strega di Noto.

L’ho vista in controluce e l’ho chiamata così, dentro di me. La strega di Noto. Secca come questa lingua d’asfalto grigia e affollata, che porta alla grande Cattedrale. Le mani nodose e dure, arbusti pungenti vicino agli acquitrini. Senza denti.

“Veni ccá picciriddu”.

Seduta, acquattata come un ratto cattivo, senza pace, sulle scale bollenti delle Terrazze di Santa Chiara. Adesca i più piccini. E chiede monete. Ho fame, dice. Nella sua lingua sdentata e rude. Sta accucciata su se stessa, dentro questo quadro dai volumi corposi, colori densi che il pennello non riesce a stendere bene: un’istantanea di turisti inglesi con i cappelli di paglia chiari, bambini scalzi al ciglio della via che vendono pappagallini verdi, ragazzine formose con flauti appesi al collo. E uomini, tanti uomini di tutte le età, seduti ai tavolini del bar, a squadrare i passanti. A scambiare battute. E a farsi compagnia, con quell’ironia caustica che si impara dalla canicola sul marmo, dalla facciata della chiesa imponente, dalle spremute fresche dei baracchini. La strega grida. Non comprendo le sue parole. È un idioma antico. Indemoniato. Capisco solo “madre”.

Ma l’avrà, una madre, lei? Che è come un nibbio perso in una palude?

Mio figlio la guarda. Si ferma poco distante da lei. Credo abbia paura. Lo mescolano dentro le sue urla gutturali, giunte dal profondo ventre del tempo.

Poi la strega lo vede e smette di gesticolare. Silenzio.

Piccirinu, sussurra. Si alza piano, una gazzella emaciata, claudicante. Si allontana.

Sei buona, strega. Tu sei buona.