Le caramelle della domenica.

Ha stretto troppo, quella Micra. In curva. E così con lo specchietto ha urtato il mio manubrio, mentre andavo veloce, in equilibrio sul pavè marrone scuro, i quadretti irregolari di questo percorso che mi portava a te, Emma. La mia bambina.  

Sono caduto lì vicino, sbattendo la spalla contro il pilastro sul ciglio della strada. Il pedale mi si è ficcato nel polpaccio. E il freno l’ho sentito entrate dentro il fianco. Come la lancia del Cristo, mi sa.

La macchina non si è fermata, era una donna. Aveva paura. Certamente un marito spavaldo e arrabbiato l’avrebbe rimproverata davanti a quello dell’assicurazione, di nuovo tutti si sarebbero presi gioco di lei. Allora è fuggita lontano e il ciclista l’ha lasciato a terra, quelli non muoiono mai, tanto. Quelli stanno sempre in mezzo alla strada.

Comunque ho mandato via tutti i curiosi.

E sono riuscito ad arrivare in tempo.

Ho varcato la soglia dell’Aula Magna che stavi al lato del tavolone dei professori. Bella, con i boccoli e le gambe molli delle tappe importanti. Il tuo Gran Premio della Montagna. Il professore di semiotica ti ha messo un po’ in difficoltà, ma tu niente. Solida, sicura nella tua voce tremante di coraggio. Di tensione.

C’è tua madre in prima fila. Io è meglio che sto qui, vicino alla tenda scura dell’ingresso. Non importa, sai? Si vede bene anche così.

Poi tu sei una stella che mi attrae, illumini tutto, qui dentro.

Ti proclamano dottoressa. E pensa io che scemo che rivedo me e te sul balcone a giocare al paziente birichino. Com’eri brava a provarmi la febbre, a darmi la medicina. La mia Emma infermierina.

Te le ho portate qui, le nostre caramelline. Le ho recuperate in una pizzeria del centro, me le hanno regalate dopo il caffè. Ho preso il barattolino, colmo di orsetti e di gommose, e l’ho infilato nel borsone. Quando mi sono alzato, dopo la caduta, ho controllato solo quello: il barattolo delle caramelline. Mi vedi subito, mentre scatti le foto con la corona di alloro. Non ti fai vedere dalla mamma. Mi vieni a salutare veloce. “Pà, che faccia. Tutto bene? Non pensavo di vederti qui. Grazie”. Ma sei di corsa, temi che lei ti veda. Non vuoi darle un dispiacere.

Io sono il nemico.

Tua madre mi fa scontare una pena di vent’anni. Lei lo sa, lo sa bene: la mia prigione è starti lontano. E la mia ora d’aria è la nostra domenica al mese. Però ha ragione, tua madre. Mi ha trovato quel mattino, in casa nostra. E Giulia non era la prima. Mi piacevano troppo le donne. Ma l’unica che ho amato è stata lei, tua madre. Comunque è vero, sono uno stronzo. Uno che si merita di stare al ciglio della strada, sbattuto da una Micra che stringe in curva.

Emma, le caramelline. Emma!

Mi rimane il barattolino in mano. Il barattolino della domenica. Tua madre ti portava dal dentista più costoso della città. E allora niente zuccheri, niente pasticci. Come si illuminava il tuo visino quando ti donavo di nascosto qualche orsetto, così. Per fare qualcosa di proibito. Per entrarti dentro, con quel morso dolce. Per rimanere.

Almeno nello stomaco, se non nel cuore.

Un giorno mi ricorderai, piccoletta. Sono quello che sta ai bordi, che cade in bicicletta. Sono quello che ti porta le caramelline.

Della domenica.