La fiamma.

È entrata in cucina, a luci spente.

Ha trascinato senza rumore la gamba cattiva, quella che si blocca sempre quando meno se lo aspetta. In quei momenti potrebbe farla cadere. Rovinarla per sempre.

A parte la gamba malandrina, che peggiora con il tempo, le piace questo inverno umido e nebbioso. Anche se non esce più dalle sue quattro mura. Gli odori li ha comunque sotto le narici, hanno dentro un che di solido, di permanente. Sono i fiati delle foglie che si schiacciano contro la terra, macerano nel grande giardino, in mezzo ai fili d’erba e alla rugiada trasparente.

Si è seduta al tavolone di legno massello, un investimento di tanti anni fa, quando la famiglia si riuniva per la cena, tante gambe tra le sedie, barbe lunghe un poco sfatte, di ritorno ognuna dalla sua giornata.

Parole. Polenta masticata piano, inghiottita bene.

Buono, il vino rosso fermo dello zio. Mani che alla fine sono andate. Hanno camminato più dei piedi. Un bel mattino di primavera, lei si è ritrovata qui, con la faccia incollata al pavimento.

Tutti partiti, tutti passati. Lei li aveva nutriti, vestiti, curati. Li aveva resi pronti al mondo. Il mondo se li è presi, allora: perché erano perfetti.

Adesso cosa le rimane?

Una candela con la fiamma tremolante, un soffio caldo e lieve sotto il mento.

La tavola è apparecchiata per una persona, la condensa si accumula sulla finestra. Una merla, fuori, cerca un seme sotto la coltre di neve, saltella con le zampe come stecchi di ghiaccioli scuri.

Il giovedì, il postino le suona il campanello, così, per salutarla. Non ha più nulla da consegnare, ormai.